martedì 12 luglio 2016

La strada della rinascita

Sento che ci siamo, sento che è arrivato il momento. I dolori sono sempre più forti, e il tempo ormai  è quello giusto: ho deciso, non posso fare altro che prendere il telefono e chiamare. Compongo il numero mentre cammino nervosamente per la stanza, ma il telefono suona a vuoto. Cerco di calmare la respirazione, mentre vado in bagno per controllare. Le contrazioni continuano da troppo tempo, mio marito è in volo e mio padre non risponde al telefono. Sono nervosa, mentre per un istante i dolori si attutiscono, sono madida di sudore e chiudo gli occhi per calmarmi. Penso spontaneamente alla mia vita, alla mia infanzia e a quello che mi è successo, adesso che sto diventando madre. Il dolore fisico che sto provando è per me il riscatto della mia storia. Sto dando alla luce una bambina e il mio pensiero fisso è a quel momento che mi appartiene e che oggi non ha testimoni, che rimane solo teorizzato.
Il mio inizio. Il mio buco nero.
Richiamo mio padre che finalmente risponde, cerco di tranquillizzarlo e gli dico che voglio andare in ospedale, che i dolori sono aumentati e che voglio lui vicino, “arrivo subito” , mi dice.
Michele è partito appena ha potuto per raggiungermi, e sarà l'ultima volta che accetterà quegli impegni di lavoro, ora che saremo una famiglia. Mi tengo la pancia fra le mani. Sento dentro non solo la creatura che è cresciuta dentro me, ma anche me stessa, sento un bisogno indescrivibile di stringere ciò che porto in grembo, ho fretta di vedere. Mi vergogno di considerare ciò che ho accudito per nove mesi  come una mia proiezione del passato, un conto aperto con la mia vita, quasi fosse più importante una dimostrazione a me stessa di procreare che la responsabilità di mettere al mondo un figlio. Non solo il frutto dell'amore con mio marito, ma principalmente una cosa tutta mia, un'equazione mai risolta prima, l'incubo inspiegabile e vissuto solo da me, l'ombra che mi ha accompagnato tutta la vita, quella favola bella, ignota a tutti e dimenticata solo perché finita bene.
Adesso mi manca il respiro, sento le fitte all'addome e un dolore forte ai reni. Mio padre sta arrivando. Cerco di stare calma e penso alla mia infanzia, prendo aria e riempio i polmoni, mentre la mia mente vola a quando ero bambina, a quei pochi ricordi del "prima", di quella vita che non ho mai vissuto, di quel passaggio obbligatorio nell'istituto. Ero troppo piccola e ricordo solo immagini luminose, colori violenti e bambini che correvano intorno a me. Ma nei ricordi lo stacco con quella vita in cui sono cresciuta non è nitido, ma fluttuante, si sovrappone. Eppure ci sarà stato il momento del taglio, del distacco da quel mio primo nido. Ho visto le foto e me lo hanno raccontato per anni quel giorno : quando mamma e papà sono venuti a prendermi, ma le immagini sono confuse. Forse anche ciò che penso di ricordare, in realtà è frutto della mia fantasia, pensieri elaborati dalle fotografie che sfogliavo avidamente da quando ero piccola. Ricostruire la mia storia, la mia ossessione di sempre. La tessera mancante, il momento dell'abbandono, l'inizio della mia vita. Adesso sta per nascere mia figlia. Ho paura di non riuscire più a lasciarla, una volta che l’ abbraccerò: vorrò tenerla sempre stretta a me, non mollarla mai.
Sento il campanello, mi alzo e vado ad aprire. Mio padre sale le scale in fretta, ha gli occhi lucidi, "sto bene", gli dico, "ma preferisco andare subito, è inutile aspettare".
"La mamma ci raggiunge dopo", mi risponde, "così facciamo prima". Ci abbracciamo forte, anche lui non vede l'ora che tutto finisca, sono giorni che ha i nervi a fior di pelle. Per lui è la prima volta che attende in una sala parto, la prima volta che vedrà un bambino appena nato, la prima volta che diventa nonno della sua prima figlia. Ha il sigaro spento fra le labbra e si muove a scatti, entra in bagno poi torna indietro, mi chiede se ho chiuso il gas e se ho preparato tutto. Io non gli rispondo, prendo il borsone con le mie cose e glielo metto in mano, poi gli indico la porta.
Devo controllare anche lui. Devo controllare il respiro, devo controllare tutto. Prima di uscire guardo la fotografia che ho nella cornice sopra il mobile nell' ingresso: è la prima foto che ci ritrae insieme, in India, avevo quattro anni e i miei genitori erano appena venuti a prendermi. Mia madre aveva gli occhi stanchi di chi ha fatto uno sforzo immane e può finalmente rilassarsi, come quei maratoneti che alzano le mani a pochi metri dal traguardo perché ormai hanno vinto, e corrono per inerzia con la bocca aperta e gli occhi al cielo. Mio padre aveva nello sguardo quella luce di chi è esausto ma non riesce a prendere sonno e cerca la forza di stare sveglio, di essere vigile e controllare ogni cosa intono a se. Nella foto mi tengono in braccio, io guardo il fotografo, con un'espressione fiera e il sopracciglio destro leggermente inarcato, avevo i capelli raccolti in due trecce e un vestitino viola. Forse già allora mi sentivo felice ma spaventata per quello che mi stava accadendo. Proprio come adesso.
Saliamo in macchina e ci dirigiamo verso l'ospedale, meno male che mio padre guida bene e prende le curve dolcemente, quasi mi lascio cullare sulla  strada che da casa scende in città, la strada che ho fatto per tanti anni, in autobus, in scooter e poi in macchina.
Mi arriva il messaggio di mio marito: è atterrato, mi chiama appena esce dal terminal. Gli rispondo rassicurandolo della situazione. Poi metto in tasca il telefono e chiudo gli occhi. Le fitte ricominciano. Mio padre mi accarezza una guancia senza togliere gli occhi dalla strada. Io gli prendo la mano e stringo forte, torna in me il bisogno del contatto rassicurante con la persona che ti dà amore, quel bisogno ancestrale che devo aver provato anche da piccola, per compensare quella perdita, quel distacco traumatico che ora sarà un’ eco chissà dove nel mio inconscio. Quel bisogno che hanno esaudito i miei genitori sin  da quando siamo nati come famiglia, in quella lontana primavera indiana, di cui non ho ricordi ma solo foto sbiadite, dove la donna che mi ha partorito è rimasta un sogno, e tutta la storia un mistero. Credo che mio padre non sappia altro, anzi, ne sono certa. In questi anni abbiamo sempre fantasticato di andare in quel posto dove sono nata ma non è mai successo. Forse torneremo un giorno in quel luogo dove ho aperto gli occhi, e finalmente troverò dentro di me le risposte, o forse, troverò la pace e chiuderò i conti con la questione delle mie origini.
Faccio questi pensieri forti mentre respiro e più respiro forte più questi pensieri si colorano, diventano vivi, ed io stringo ancora la mano di mio padre, per un attimo, mentre guida. Siamo quasi arrivati, rallentiamo e cerchiamo l'ingresso dell’ospedale più vicino alla strada.  Adesso dobbiamo entrare, il dolore è forte e le fitte sono ricominciate, ho fretta, devo vedere mia figlia, penso piangendo, ed ho quella smania di realizzarmi come madre e di creare una parte di me che mi sopravviva.
E’ la smania di futuro che mi ha sempre descritto mio padre quando mi raccontava cosa ha spinto lui e la mamma ad adottare : completare la propria vita, essere protagonista dei ricordi di chi hai cresciuto. Mio padre mi guarda, ha ancora quella smania negli occhi.


2a parte

Adesso sono tranquillo, siamo arrivati in ospedale senza contrattempi, e ora che guardo negli occhi mia figlia, leggo quella luce di ostinato desiderio che ho sempre visto illuminarle il viso ogni volta che parlava del suo stato.
Siamo arrivati alla fine di questo periodo di attesa e il sogno si sta realizzando. L'attesa amplifica i desideri e fa crescere chi li custodisce. Ricordo quando io e mia moglie eravamo in attesa, era un tempo diverso, dilatato e rigido come le nostra vite che avevamo indirizzato sugli stessi binari quando volevamo solo diventare genitori.
Oggi me lo sentivo che era la giornata buona, mi aspettavo la telefonata di Maya, appena ho saputo che mio genero stava tornando dell'Inghilterra. Allora ho subito cercato l' infermiera che sostituisse mia moglie che in questo periodo si sta dividendo fra i nostri vecchi. Siamo la generazione di mezzo, sessantenni che accudiscono i genitori e disinfettano le ferite dei figli, che questo mondo sta prendendo a sberle. Assecondiamo i loro sogni, come abbiamo sempre fatto, anche rischiando di renderli dipendenti da noi, di soffocarli con le nostre convinzioni e con le nostre sicurezze. I nostri ragazzi devono  essere di indole ribelle per credere in loro, per prolungare la tempesta dell'adolescenza  e mantenere ciò che di buono succede a quell'età : la continua necessità di crescere e di cambiare, di staccarsi dal bambino che non c'è  più.
Ricordo quando mia figlia era piccola, di quando voleva fare tutto da sola e della sua fretta di diventare grande. Maya fu per noi una virata dolce nella nostra vita, che ci ha portato sulla strada che volevamo, quando io e mia moglie ci sentivamo incompleti. Una strada a volte in salita ma con curve morbide, che non ci ha  mai fatto perdere di vista l'orizzonte davanti a noi.
Ora siamo arrivati qui, stiamo salendo al quinto piano, reparto ostetricia, accompagno mia figlia per l'ennesimo monitoraggio, forse è la volta buona. Aspetto seduto in corridoio mentre la ginecologa l'accompagna nella saletta. Chiamo mia moglie, le dico di sbrigarsi.
Dalle grandi finestre il sole sbiadito del tramonto getta ombre tristi sui palazzi di cemento che soffocano il piccolo parco dietro l’ospedale, vedo bambini che corrono e mamme dietro loro con il passo stanco.
Pochi rumori arrivano dalle stanze, interrotti solo dal calpestio sommesso di qualche medico che percorre il corridoio.
Sono sospeso nel tempo, solo, mentre mia figlia sta per partorire. Apro il portafoglio e estraggo la fotografia che conservo dal tempo in cui siamo andati a prenderla in India più di vent’anni fa. Avevamo negli occhi l’incoscienza, ma anche una luce che rifletteva la nostra gioia, che ci ha fatto attraversare tutti questi anni.
Se chiudo gli occhi, rivedo il sogno che mi ha accompagnato tutta la vita, un sogno alimentato dalla fantasia, dalla paura, il primo tempo sconosciuto della nascita della mia bambina.
Vedo una donna- la immagino ma non vedo il volto-, vestita di stoffe di tutti i colori, mentre corre con un fagotto in mano. Corre sotto la pioggia  e tiene stretta a sé ciò che vuole proteggere, corre per consegnarlo a qualcuno, perché venga salvato, perché venga trovato. Corre mentre succede di tutto, tutto il mondo è contro di lei. Quella donna corre mentre un acquazzone scarica tutta la sua potenza a terra, mentre il vento forte scuote gli alberi e fa volare via detriti accatastati ai bordi delle baracche, e lei a fatica percorre quella strada di fango mentre stringe a se un dono che sarà la costruzione di una nuova famiglia, sarà una donna che crescerà lontano da lei . Sarà una donna che avrà dei figli.
Sarà mia figlia che oggi sta per partorire.
Ma quella donna dei miei sogni non lo sa. Lei stringe a se ciò che ha appena dato alla luce e si preoccupa unicamente, sola e con tutte le forze della natura contro di lei, di tenere in vita quella creatura e di portarla al sicuro. La terra diventava fango, sotto fiumi di acqua che scorrevano per le strade, mentre il vento urlava e i fulmini schioccavano nel cielo nero. Aria, terra, acqua e fuoco, tutto questo c'era nel mio sogno, ad immaginare come è stato l'inizio della storia di questa bambina.
Chissà se è andata veramente così.
Adesso la guardo, al di là del vetro, mentre aspetta di dare alla luce suo figlio. È sdraiata sul lettino per il monitoraggio ed ha accanto a lei l'ostetrica e un' infermiera. Alcuni medici entrano ed escono in silenzio dalle camere. Sento freddo e mi accorgo che sto tremando, ma sono consapevole che è l'emozione. Sento il campanello dell' ascensore, vedo mia moglie che mi viene incontro e mio genero che vorrebbe correre ma non sa da che parte.
Mi alzo e li abbraccio, gli faccio segno oltre la porta a vetri, poi mi siedo e non so perché ma le lacrime mi scendono mentre mi sento al settimo cielo.
Adesso siamo seduti io e mia moglie in corridoio, mentre Michele è entrato nella saletta, ad attendere di entrare in sala parto. Siamo io e lei, in questo anonimo corridoio, mentre le luci al neon riflettono chiazze di luce riflesse sul pavimento scuro. Adesso ci teniamo la mano e le stringiamo forti, consapevoli come questo momento sia un passaggio importante nella nostra vita.  Mentre ci guardiamo negli occhi, penso ai momenti in cui io e lei, in silenzio ci siamo presi la mano. Chi ci guarda penserà che siamo due vecchi patetici sentimentali. Ma a me non importa. Eravamo seduti mano nella mano quando abbiamo acquistato casa, poi tutte le volte che eravamo in ospedale per cercare di avere un bambino, poi quando volevamo adottare un bambino, e quando ci hanno detto che potevamo adottare un bambino. Poi anche quando ci hanno detto che c’era una bambina che era nostra figlia, quando abbiamo visto le prime foto di nostra figlia, quando siamo partiti per andare a prenderla, e anche sull’aereo, quando siamo atterrati, per sempre. E anche adesso ci teniamo per mano.
Sento la porta che si apre, Michele esce con un camice in mano e mentre un infermiere apre la porta, un altro spinge il lettino con Maya.
Ci alziamo in piedi di scatto, siamo pronti: è ora, li seguiamo fino alla sala parto.

mercoledì 20 aprile 2016

Il viaggio per venirti a prendere




14 agosto 2014
ore 23,00

Oggi è stata una bella giornata. Le ore sono trascorse fluide, lasciandomi addosso il piacere di ogni gesto e ogni decisione.
Siamo in vacanza, al mare, in una pensione della Riviera romagnola e mi sto godendo questi giorni di riposo con mia moglie e mia figlia  giocando sulla sabbia e costruendo castelli.
Siamo appena tornati in camera, ti leggeremo una favola e ti addormenterai, mentre io fumerò sul balcone, pensando a questi mesi passati insieme. Sono stati mesi di conquiste e di gioie, mesi intensi e faticosi. In questo tempo ci siamo uniti, siamo cresciuti insieme. Abbiamo appena iniziato la nostra vita, e tanta strada insieme dovremo ancora fare.
Stasera in piazza c'era un palco con un gruppo che cantava le canzoni di Zucchero. Abbiamo ascoltato "come il sole all' improvviso" e mentre la melodia ci cullava in quel momento perfetto della nostra vita, tu ci hai sorpreso. In braccio alla mamma, mi hai preso la spalla, tirandomi verso di te, volevi abbracciarmi. Hai abbracciato il collo della mamma e il mio, volevi in quel momento essere una cosa unica con noi due. Il tuo sguardo sorrideva, nel fondo dei tuoi occhi leggevo quella pace e quella serenità che sognavo di darti. Quel calore protettivo che quando siamo partiti per venirti a prendere era ciò che avrei voluto donarti subito.


12 aprile 2013
ore 23,30

Mi sto preparando a questa lunga notte, la notte prima del viaggio . Io e mia moglie siamo a Bologna a casa degli amici che ci hanno ospitato per essere domattina all'alba in aeroporto, dove ci aspettano Laura e Lorenzo con il loro figlio. Saranno i nostri compagni di viaggio, condivideranno con noi questo travaglio, in cui voleremo dall'altra parte del mondo per conoscere nostra figlia.
I nostri amici ci hanno lasciato la loro camera e il loro letto e si sono sistemati sul divano. Ci hanno preparato la cena e ci stanno coccolando con la stessa discrezione di chi ti prepara  a una cosa importante, come un allenatore prima della gara, come un infermiere prima dell’ entrata in sala parto, come chi ti prende la mano ed è sempre presente, anche se non fisicamente. Ci sdraiamo sul letto quasi facendo attenzione a non sgualcire le lenzuola, che profumano di pulito e di affetto, con le valigie pronte e i vestiti appoggiati sulla sedia a fianco del letto. La luce della lampada crea una penombra che ci dovrebbe aiutare a passare dalla veglia al sonno, mentre io e mia moglie, senza più parole, ci teniamo la mano. Sarà forse una notte insonne, la nostra ultima notte in Italia come coppia, solo noi due, a guardare il soffitto con i nostri pensieri paralleli, che partono da lontano, nel nostro intimo e si congiungono nel desiderio di diventare genitori.
La casa è silenziosa e anche i bambini dei nostri amici dormono da un pezzo. Cerchiamo di fare finta di dormire ma inevitabilmente la mente partorisce pensieri in autonomia, e le immagini dietro i miei occhi chiusi scorrono e mi riportano a pensare al nostro recente passato, quando abbiamo ricevuto la telefonata dell'abbinamento.
Come spesso succede ero nel posto meno indicato, cioè seduto davanti ad un cliente chiacchierando di lavoro, quando sul telefono compare il nome dell'ente per le adozioni. Mi presi qualche minuto, congedandomi frettolosamente per crearmi un rifugio intorno a me e richiamare. Mi sedetti in macchina e richiamai. Rispose il direttore, con la sua voce ferma e affabile e mi diede la notizia. Avevamo la proposta di abbinamento: una bambina molto piccola, di appena otto mesi. Mi inviò subito via mail  anche la cartella medica, in modo che potessimo avere tutte le notizie necessarie. Ricordo ancora i minuti successivi,  la telefonata a mia moglie e l'entusiasmo che mi obbligava a mettere a posto i pensieri prima di fare qualsiasi cosa.
Era ora di pranzo e l'adrenalina e la fame mi fecero correre verso la città, dove mi infilai in un centro commerciale . Camminavo imponendomi di pensare una cosa alla volta, e mi sforzai di concentrarmi sulla ricerca di un bar. Non ero mai stato in quel posto e mentre nei miei occhi scorrevano le vetrine dei negozi la mia attenzione fu colta da un'immagine riflessa, l'immagine di una persona conosciuta che proprio in quel momento rappresentava quanto il destino possa essere a volte spiritoso. Forse un segnale, per chi crede a queste cose, o forse solo il caso, quella legge che governa tutto e che noi dobbiamo solo cercare di veicolare dove vogliamo.
Era senz'altro lei, e le andai incontro con gli occhi che brillavano e la abbracciai con un calore forse eccessivo per una persona che si conosce appena : era infatti una collega di mia moglie che qualche tempo prima aveva adottato una bambina in India con il nostro stesso ente.
“ Mi hanno appena chiamato per l’abbinamento !”, dissi.
“ È incredibile che la prima persona a cui do la notizia dal vivo sia tu, ma forse è giusto così, tu mi puoi capire”.
Lei mi rispose con un sorriso, poi ci scambiammo poche parole anche perché ero troppo confuso per sostenere una conversazione. Ci abbracciammo di nuovo e salutai anche sua figlia, una bimba di una decina d'anni. Guardandola negli occhi, pensai inevitabilmente a quella che  potevo finalmente dire essere mia figlia. Pensai a lei, al mio futuro. Quel mattino ero diventato padre. Mia figlia era stata generata da un incrocio di destini che si è realizzato con una telefonata.
Quell’ incontro casuale mi fece pensare al momento che stavo vivendo. Mi trovavo in un  momento importante della mia vita, e quella coincidenza lo ha enfatizzato. Così, come nel meccanismo della procreazione naturale la famiglia nasce dal parto del figlio, la mia famiglia stava nascendo da questo intreccio di bisogni e desideri, di gioie e di dolori, di attese e di pianti.
Piansi. Mi infilai in un bagno, mi sciacquai la faccia e cercai un bar. Avevo fame. Mangiai un panino sfogliando un giornale, ma i miei occhi avevano ancora l' immagine del report trasmesso via mail. Allora cerco la mail sul cellulare e apro l'allegato, scorro lentamente quelle frasi sfocate dalla fotocopiatrice e dallo scanner, frasi che indicano le caratteristiche di mia figlia, mentre leggo veloce per cercare di capire se c'è qualcosa di strano, vedo una parola che non conosco. Una parolina di cinque lettere che non è un verbo nè qualsiasi altra parola inglese . Era scritta con la prima lettera maiuscola .
Lo lessi e lo pronunciai con le labbra socchiuse. Aveva un suono particolare: era  un nome. Il suo nome. Nelle altre parti era cancellato ma in quella riga, probabilmente per una svista, era stato lasciato. Allora cercai sul telefonino il significato, e digitando freneticamente su Google trovai : “ fiore colto " ma anche “ nata dal cuore ". Ecco il nome che il destino diede a mia figlia. Nel report trovai anche notizie sul suo ritrovamento, a pochi giorni di vita. Mi scollai con la mente da quel posto, dimenticai di avere fame. Benvenuta nel nostro cuore, pensai, benvenuta piccolina. Da allora non pensai ad altro che al tempo che ci separa dal nostro incontro, da ciò che sarà la nostra unione, la nostra nascita.
Era l' otto marzo del 2012. La festa della donna.
L’ente ci diede poco tempo per convalidare ufficialmente l’abbinamento e noi in quel poco tempo trovammo la disponibilità di un pediatra che ci analizzò la cartella clinica, rassicurandoci su ciò che poteva esserci per noi di incomprensibile.  La bambina non aveva nulla di rilevante, anzi, era sana e negli standard della sua età. Avevamo fretta, in quella sospensione di tempo in cui ci trovavamo, di fare ufficialmente un passo avanti e fare tutto per avviare le pratiche di adozione. Chiamai l’ente ma il direttore non c’era. Mi richiamò il giorno dopo. Ero parcheggiato nella zona industriale di Correggio, davanti a me i capannoni squadrati erano immobili come il mio cuore quando vidi la chiamata sul cellulare.
“Pronto?”, fu quello che dissi, poi le parole faticarono un pò ad uscire, ma dopo che il bravo direttore mi fece il preambolo di rito, concludemmo insieme le frasi e le parole, che ad oggi non ricordo più quali, ma che volevano dire che da quel momento la pratica si sarebbe formalizzata e Mansi sarebbe diventata nostra figlia. I capannoni davanti a me si stavano sciogliendo. Spensi il telefono e accesi la radio, la canzone che stavano trasmettendo era “Hello, it’s me”, di Todd Rundgren. Buon per chi crede, ancora, nei segni del destino, pensai.
Guardo la sveglia sul comodino, è quasi l’una di notte. Accarezzo mia moglie su una guancia, si è addormentata tenendomi la mano. Chiudo gli occhi e cerco di dormire, domattina ci aspetta la nostra cicogna.


13 aprile 2013
ore 03,45

Mi sveglio nel cuore della notte e il cuore mi batte forte. Ho appena fatto un sogno e mi sveglio sudato mettendo a fuoco oggetti e muri che non riconosco. Il pianto del bambino. Per un attimo non capisco dove mi trovo. Mia moglie ha un sonno irrequieto. Cerco di ricordare, adesso che sono appena uscito dal non reale, e mi trovo nell’anticamera di un’avventura che farà di noi una famiglia.
Ho sognato una donna. Era vestita con un velo colorato che la avvolgeva dalla testa ai piedi e correva piangendo su una strada di terra battuta, delimitata da baracche e pochi alberi. Correva con il capo coperto da un velo colorato, che come tutto il vestito era leggero e mentre correva rischiava di farla inciampare. Mentre passo dopo passo si allontanava, vidi che stringeva al petto qualcosa, correva mentre il cielo si faceva grigio e iniziava a piovere. Io correvo dietro lei, come fosse la cosa più importante della mia vita sapere dove stava andando e cosa stava portando. Il vestito fatto di tanti colori pareva allungarsi, lei diventava sempre più piccola dentro quei veli. La pioggia bagnava tutto, la strada era fango, il mio respiro si faceva affannoso.
La donna si fermò, io ero dietro di lei. Davanti a noi il cielo era nero e grosse nuvole avanzavano sopra di noi scaricando pioggia pesante che picchiava la pelle.
Mi fermai e respiravo a fatica, misi le mani sulle ginocchia, mentre lei si fermò e si mise in ginocchio. Stava proteggendo qualcosa, era curva a terra, rannicchiata con le braccia strette intorno a un fagotto. Il vento sbatteva la pioggia con violenza, raffiche forti strappavano arbusti e sollevavano rami e pezzi di legno. Avanzai verso la donna cercando di resistere il vento, con un braccio a proteggermi gli occhi, avanzai facendo forza sulle gambe e stando con il busto piegato in avanti. Arrivai a lei, le misi una mano sulla spalla. Lei fece per girarsi, con il velo che le ricopriva completamente il viso, quando sentii il pianto di un bambino. Il vento cessò e anche la pioggia. Era buio. Ero a letto, a Bologna.
Gabriele, il figlio dei nostri amici si era svegliato. Aveva fatto un brutto sogno.


13 aprile 2013
ore --,--

Mi trovo nel limbo fra sogno e realtà, in quella terra di mezzo dove la mente viaggia veloce e i pensieri sono nitidi e velocissimi, come non si potrebbero fare ad occhi aperti, solo immagini e connessioni arginate dalla coscienza. Non riesco a dormire, fra poco sarà l'alba. In questi momenti, fra il sonno e la veglia, mi ritrovo bambino e protetto, sento intorno a me le cose rassicuranti che ogni bambino dovrebbe avere. Con gli occhi chiusi mi vedo sul divano del tinello, con i mobili scuri che hanno arredato il salotto dei miei genitori fino a che non sono diventato grande. Sento che è un pomeriggio tiepido ed io, soddisfatto per aver finito i compiti, sono davanti alla televisione. Percepisco il profumo della torta che viene dalla cucina, la piccola cucina illuminata dal neon bianco del lampadario sul tavolo di formica con il ripiano azzurro .
Sui fuochi la pentola a pressione carica di verdure per il minestrone fischia ad intermittenza.
Sullo schermo della tv Brionvega scorrono le immagini di “Atlas Ufo Robot”, poi Sandokan, la pubblicità del Buondì Motta, il telefilm “Mork e Mindy”. Daniela Goggi e la pubblicità delle Big Babol, Papa Giovanni Paolo II al telegiornale e Lucio Dalla che canta "Futura" a Discoring ( chissà, chissà, domani ...nascerà e non avrà paura nostro figlio ...e se è una femmina si chiamerà futura...). Poi le immagini del presidente Pertini con la pipa in mano, I telefilm  “L’ispettore Derrik” e  “Il tenente Colombo”, Enrico Beruschi con Carmen Russo al Drive In.
Sento il profumo di mia madre che mi da un bacio prima di andare a lavorare. Poi, dal divano, fluttuando senza spazi né tempo mi ritrovo seduto sulla 500 di mio nonno. Vedo lui alla guida e mia nonna a fianco. È inverno e dai finestrini vedo Reggio Emilia che dal centro città, in pochi secondi diventa campagna. Senza continuità, senza negozi né insegne, tantomeno centri commerciali. Entro nel negozio dove mia madre ha lavorato per più di trent’ anni. È estate ed ho i sandali di gomma ai piedi. Sono alto come mezzo manichino e l'odore dei vestiti nuovi si confonde con l'aria calda che arriva dalla porta di ingresso che dà sulla via Emilia.
È l'alba degli anni ottanta e io sono orgoglioso della mia bicicletta nuova. Sono seduto in una poltrona in similpelle, ho i pantaloni corti e la pelle si appiccica al contatto di quella superficie color verde scuro, quando vedo i colleghi di mia madre con le facce preoccupate e immobili ascoltare ciò che dicono per radio. Nelle frasi nervose pronunciate dagli adulti sento dire “bomba” e “Bologna”, e capisco che è una cosa grave.
Sento l’atmosfera grave e lo smarrimento del mondo adulto, me lo ricorderò per sempre.
 Poi gli anni correvano veloce e nel dormiveglia mi ritrovai ragazzino, nel tempo delle scoperte, quando non senti solo di vivere, ma ti senti vivo, e ogni cosa è per la prima volta. La mia bicicletta nuova aveva fatto centinaia di chilometri, la scuola era finita non so quante volte, e un attimo fa ero a Milano, ho appena conosciuto mia moglie e mi sono innamorato, ho la mente leggera e il cuore pieno di gioia .
Era un attimo fa. Ora sto aprendo gli occhi, la notte è finita, così come il vortice dei miei pensieri che mi ha riportato a ripensare al tempo di quando ero bambino. Quel tempo ora lo devo restituire, devo essere io, ora, a guidare la macchina, a proteggere, e a cercare di non sembrare mai smarrito, ma vegliare sul figlio che il destino ha deciso di darmi. Una bambina che è nata a migliaia di chilometri dal mio vissuto. Dobbiamo andare a prenderla, adesso: è ora di smontare quella corazza di protezione in cui ho ingabbiato il mio cuore per non soffrire troppo l'attesa.       Adesso basta, si parte. Ci sarà l'incontro, la conosceremo. Conosceremo nostra figlia per la prima volta e ci abbracceremo. Queste emozioni mi fanno uscire dal torpore mentre quasi mi viene da piangere. Mi alzo e mi metto seduto sul bordo del letto, appoggiò una mano sulla spalla di mia moglie. Lei è sveglia, sta già piangendo.


13 aprile 2013
05.00

Cerco di accarezzarla per consolarla, con l'intento di darle forza per distoglierla dai sentimenti che credo l'abbiano fatta commuovere, quando mi scosta la mano e con un gesto mi fa capire che non si tratta di sentimenti, ma il motivo del suo lacrimare è fisico, acuto, improvviso. Dolori intestinali. Dolori mestruali.  Fitte all'addome violente.
Si precipita in bagno, io dietro la porta, i miei amici pronti con il kit medico, un astuccio con ogni tipo di pastiglia antinfiammatoria, antinfluenzale, antidolorifica, antistaminica. Dal bagno arrivano segnali che ci fanno sperare bene. Con i minuti i dolori si attenuano.
Siamo pronti ad abbandonare quel nido caldo di amicizia, tanto necessario quanto provvisorio, per andarci a conquistare il nostro nuovo essere uomo, donna, coppia, famiglia. Il nostro amico scende a preparare l’auto e noi scendiamo le scale con i bagagli, quasi meccanicamente, pensando solo al volo, all’incontro, a tutto quello che serve per tornare a casa con la nostra piccola.
Arriviamo puntuali al check in e i nostri compagni di viaggio ci stanno già aspettando. Per loro è il secondo viaggio in India. La prima volta, andarono a prendere il primogenito, che ora ha sette anni  e sta per compiere il suo viaggio per andare a conoscere il fratellino. Mi guarda indicandomi ciò che tengo in mano, facendomi notare che il passeggino appena ripiegato e incartato con il cellophane per il viaggio, assomiglia ad un osso di un dinosauro.
Il tempo scorre e le chiacchiere ci portano pian piano dentro il ventre dell' aereo, che da Bologna ci farà arrivare in quel luogo con cui manterremo sempre un legame, con cui un filo ci terrà sempre emotivamente coinvolti. La culla di nostra figlia, la terra che ha avuto cura di chi sarà motivo della nostra vita per sempre. Il paese che ha realizzato il nostro desiderio, tutto quello che c’era intorno e che noi non vedevamo nei nostri sogni, perché avevamo focalizzato solo un ideale, un’emozione. Non un volto, tantomeno un luogo. Solo una sensazione.
Pensieri frutto di sogni notturni, come quando sognai con l’aereo di atterrare nell’istituto e abbracciare mia figlia, seduta alla fine di un’ arcobaleno, o come quando tempo fa mi venne in mente nitida l’immagine di me che tenevo per mano una bambina. Lei era scura di pelle e aveva una montagna di capelli ricci intesta, indossava un vestito bianco da cerimonia che sembrava non indossare volentieri. Stavamo camminando lungo la via di casa. Non so se quel sogno l’ho fatto ad occhi aperti o durante il sonno, negli ultimi tempi mi è capitato spesso di sovrapporre la realtà alla materializzazione del mio immaginario.
Ora di una cosa sono certo: la nostra enorme cicogna che ci ha appena inghiottiti per portarci dall’altra parte del mondo, sta decollando. Io e mia moglie ci prendiamo per mano mentre sentiamo tutta la spinta in avanti che serve per staccare dal suolo le cinquanta tonnellate di ferro, carburante, esseri umani e sogni che si stavano sollevando dall'Italia per andare a est, solcando il cielo, diversi chilometri sopra tutto.
Ci abbandoniamo sui sedili, esausti, come se per quel decollo fossero serviti tutti gli sforzi di questi anni di attese e delusioni.
Stiamo andando verso il futuro, ci sentiamo al sicuro perché là troveremo nostra figlia, il nostro desiderio di diventare genitori arriverà fino in India.
Là ci aspetta una bimba ancora piccola per capire chi siamo, ma noi le daremo tutto l’amore necessario, costruiremo il nostro legame, saremo famiglia e le daremo i ricordi che un giorno, nel dormiveglia, le rimbalzeranno nella memoria.
Con questa pace nel cuore, e il ronzio ovattato dei motori dell’aereo, mi abbandono al sonno.
India, paese a me sconosciuto, stiamo arrivando.


13 Aprile 2013
23.30 (ora locale) Mumbai- India

Dopo lo scalo a Monaco, e un altro lungo volo, due coppie, un bambino stanco ma elettrizzato dalla curiosità, che mette piede nel paese dove è nato e che ha lasciato quando aveva meno di un anno, diversi bagagli e un osso di un dinosauro, vengono risucchiati da una massa informe di persone che si spostano in tutte le direzioni in modo scomposto. L’odore di cherosene e sudore ci accoglie - “ il dolce aroma impregnato di sudore della speranza, che è l’opposto dell’odio; so che è l’aroma acre e soffocante dell’avidità, che è l’opposto dell’amore. E’ l’aroma di dei, demoni, imperi e civiltà che risorgono e decadono. E’ l’azzurro aroma di pelle del mare, onnipresente nell’Island City, ed è l’aroma di sangue e metallo delle macchine. Fiuti il trambusto, il sonno e i rifiuti di sessanta milioni di animali, in gran parte topi ed esseri umani. Fiuti lo struggimento, la lotta per la vita, i fallimenti cruciali e gli amori che creano il nostro coraggio. Fiuti diecimila ristoranti, cinquemila templi, chiese e moschee, fiuti un centinaio di bazar dove si vendono profumi, spezie, incenso, fiori appena colti ” -.
Così G.D. Roberts nel suo romanzo “Shantaram”, descrive il suo arrivo in India. Il paese delle contraddizioni, delle condivisioni, un paese per certi versi simile all’Italia, bloccato e malato dagli stessi vizi, come la burocrazia esasperante e la corruzione. Ma anche un paese dal grande cuore dove i rapporti umani sono molto importanti. Siamo molto stanchi quando arriviamo in albergo, domani avremo una giornata di riposo, mentre per lunedì ci aspetta l’incontro con la nostra guida.


15 Aprile 2013
ore 11.00 (ora locale) Mumbai- India

Incontriamo Marco, la nostra guida italiana, e con lui attraversiamo la città per andare in istituto dove Mansi ci conoscerà. Trascorreremo il pomeriggio con lei, poi torneremo in albergo, mentre domani, dopo la sosta in ambasciata per i documenti e la festa d’addio rimarrà con noi. Per sempre. Questo pensiero, tanto grande, a volte ci dà la scossa, ci amplifica positivamente i sentimenti.
Marco è un uomo affabile e pacato sulla cinquantina, con barba e capelli quasi bianchi, indossa una camicia a maniche corte, pantaloni leggeri e sandali. Sembra un giovane Babbo Natale  in vacanza, penso.
In macchina percorriamo la strada che dal nostro albergo taglia la città per arrivare in istituto. Durante il viaggio, guardo la gente. Il panorama che vedo dietro i finestrini sembra il risultato di un enorme tornado che ha coinvolto tutto il mondo in tutte le epoche: sfilano di fianco a noi palazzi e baracche, uomini a piedi e con carretti, animali -persino mucche-, frotte di tuc tuc (i piccoli taxi a tre ruote), auto di lusso davanti a palazzi enormi con tanto di uscieri in divisa. Gente coperta da stracci. Capre, galline, Mercedes, sgabuzzini di legno che vendono qualsiasi cosa. Chiese e templi, insegne colorate e cartelloni pubblicitari.
Costeggiamo la tangenziale e sotto vediamo l’enorme slum, la baraccopoli della città. Il getto di aria condizionata che arriva da ogni parte dell’abitacolo ci congela i pensieri mentre la fotografia di ciò che vediamo è paradossale e affascinante. Noi dovremo sempre rendere conto a questo posto. Questa città ha accudito nostra figlia nei primi mesi di vita. Quando lei aveva bisogno e noi non c’eravamo. Quando l’incrocio del destino ancora non ci aveva assegnato gli uni all’altra. Forse con la nostra auto, seguendo il flusso del traffico (uno dei più letali al mondo per i pedoni),  passiamo vicino a luoghi o persone che hanno sfiorato la vita di nostra figlia. Forse qui vicino c’è un ospedale dove è stata portata, forse un quartiere che ha attraversato durante il trasporto in istituto.
Nostra figlia è nata in una città distante da qui. E’ stata ritrovata dalla polizia a pochi giorni di vita. Questa città l’ha adottata prima di noi. Lei è stata partorita in un luogo che abbiamo cercato su Google, di cui abbiamo visto le immagini.
Il suo luogo di nascita è sui documenti. Lo sarà sempre, e forse un giorno, in quel posto ci andremo insieme, quando saremo una cosa unica, quando il viaggio che stiamo facendo ora  lo avremo raccontato per tanti anni.
Parliamo del più e del meno con Marco, che ci racconta della città e del suo lavoro come guida, mentre il gelo sparato dalle bocchette sul cruscotto ci ghiaccia le braccia nude e l’emozione per l’incontro imminente ci scalda i cuori.
Ci lasciamo distrarre dalla nuca dell’autista: dalle orecchie gli escono peli di una lunghezza incredibile.


15 Aprile 2013
ore 14.00  (ora locale) Mumbai- India

L'edificio è una costruzione di quattro piani in un quartiere periferico di Mumbai con un  piccolo cortile delimitato da un muro alto più di due metri.
Arriviamo percorrendo vie strette e piene di buche di quella parte di città che sembra un cantiere a cielo aperto. Passiamo attraverso palazzi e piccole costruzioni, sfiorando un fiume di persone. Il sole picchia la sua luce su tutto.
Entriamo nella reception dell'istituto. Ci accoglie il silenzio e l'educazione composta delle assistenti che ci fanno accomodare in una saletta attigua. Seduti ad un tavolo io e mia moglie, i nostri compagni di viaggio e Marco aspettiamo di incontrare i nostri figli.
L'assistente della direttrice ci offre del the e ci consegna una borsa di documenti medici e un album con le fotografie di Mansi. Il nome che gli è stato dato è scritto in ogni pagina, sopra ogni didascalia che descrive le sue prime immagini di vita. Sono gli attimi in cui noi non c'eravamo, era il tempo dell'attesa, quel tempo che qualcun altro e non noi ha testimoniato con quelle fotografie. È ritratta lei che gioca, mentre fa merenda, con i suoi compagni, insieme ai pupazzi.
Io e mia moglie siamo zavorrati dalla volontà di essere lucidi, ma il nostro cuore è una mongolfiera che vola sopra tutto, finalmente liberato da anni di doveri e di attese, e batte per questa emozione che sta diventando reale. Dobbiamo però rimanere calmi. Adesso diventa tutto vero.
Il tempo è fermo in quella stanza dai colori opachi parzialmente illuminata dalla luce esterna filtrata da pesanti tende bordeaux. Le pale sopra alle nostre teste girano vorticosamente.
I bambini stanno dormendo. Appena si svegliano ce li porteranno. Aspettiamo seduti facendoci risucchiare da quell'attimo della nostra vita che ricorderemo sempre.
Arriva una didi, ha in braccio lei. Il nostro sogno è in carne e ossa, stringe un pacchetto di biscotti nella mano destra e indossa un vestito leggero. Ci guarda distrattamente. I nostri pensieri sono confusi, io non smetto di fissare la mia bimba, ma la lascio ancora nelle mani altrui, di coloro che ne hanno avuto cura fino ad oggi. Poi piano piano i nostri sguardi si incrociano sempre più e si mettono a fuoco, il nostro primo contatto, i primi impercettibili segni del suo volto a significare un'espressione di curiosità verso due figure nuove, due estranei che si sono materializzati nel suo nido.  Poi giochiamo insieme, con le bolle di sapone, e le ore si fanno leggere, come quando ci si sta per addormentare, esausti, dopo uno sforzo sovrumano. Allora ci si vuole godere fino all'ultimo quella bella sensazione. Il primo pomeriggio insieme. Il nostro primo incontro.

Al ritorno, io e la tua mamma eravamo senza di te, eravamo mano nella mano mentre Mumbai, la tua città, scorreva lenta e insignificante dietro i finestrini. Quella notte sarebbe stata l'ultima senza di te. Pregammo fosse passata il più velocemente possibile.


16 aprile 2013
05.00 (ora locale) Mumbai- India

Oggi è il giorno del taglio del cordone ombelicale. Ci svegliamo e ci prepariamo freneticamente per non fare aspettare Marco e per avere un po' di tempo per noi.
Arriviamo in istituto attraversando la città di mattina accompagnati dalla frenesia e dal rumore che anima il mondo che attraversiamo. Il sole è velato e illumina di una luce opaca il grigio dei palazzi, allungando a terra le nostre ombre che varcano quel portone dove nostra figlia è stata portata in salvo appena nata.
Rimaniamo a giocare negli spazi interni e nel piccolo cortile, lasciamo che il tempo scorra semplicemente, godendoci quei momenti insieme, mentre Mansi gioca con i suoi compagni di istituto, bambini più grandi di lei, alcuni con handicap, altri vivaci, qualcuno la cerca per giocare.
Io faccio le bolle di sapone. Il nostro primo gioco che è il primo modo di comunicare che abbiamo. Soffio e le bolle volano in cielo e catturano la sua attenzione. Il tempo scorre e nella giornata abbiamo due appuntamenti : il ritiro del passaporto  in ambasciata è una sosta al centro commerciale per mangiare qualcosa e acquistare il necessario per i prossimi giorni, come scarpe della misura giusta, il cambio, qualche ultimo acquisto.
Usciamo in auto e il viaggio sembra procedere senza eccessivi turbamenti, salvo qualche pianto per gli ambienti e le facce nuove. Ritiriamo il passaporto, il personale è cordiale e solerte nel consegnarci i documenti. Poco distante, entriamo in un centro commerciale enorme, e lì consumiamo il nostro primo pranzo. Siamo tutti e otto intorno al tavolo: noi tre e i nostri compagni di viaggio più Marco. Mangiamo in silenzio, lentamente, come una comitiva alla fine di una vacanza. Anche Mansi e il suo compagno di istituto, ora figlio dei nostri amici e nuovo  fratello del bambino che lo guarda con sospetto, sembrano incantati dalle luci e dai colori di un luogo così diverso da dove sono cresciuti. Dopo pranzo torniamo per l'ultima volta in istituto per il farewell party, la festa di addio.
Il tutto si svolge abbastanza rapidamente, con la torta di frutta e i bambini che danno i regali. Sembra proprio una festa. Noi scattiamo foto per tenerci il ricordo di quel posto.
Quella festa significherà per sempre la fine del "prima" nella vita di nostra figlia. Poi i bambini corrono sempre più distanti da Mansi, sino a sparire fuori in cortile.
Le didi, pian piano fanno finta di ignorare la bambina che adesso ha una famiglia e deve andare, lei se ne accorge e piange. Piange disperata. Noi dobbiamo tagliare quel cordone che da quando è nata l'ha legata a quelle stanze. Una ragazza, la più giovane fra le inservienti, con le lacrime agli occhi ci dice di andare. Mia moglie prende in braccio nostra figlia mentre lei urla tutta la sua paura.
Ci fermiamo per salutare la direttrice: due frasi di commiato in piedi e scendiamo velocemente le scale, quattro piani di gradini e di dolore.
Solo la forza di sapere che è la cosa giusta ci fa muovere con la lucidità necessaria:  uscire dal portone, salire in macchina e respirare.
Siamo fuori, mia moglie ha la nostra bimba in braccio, il motore si accende e il fuoristrada procede piano per quel sobborgo disordinato di Mumbai, mentre lei è crollata sulla madre, seduta accanto a me, che mi guarda e appena mi sorride.


19 aprile 2013
16.00 (ora locale) Mumbai- India

Sono ormai tre giorni che viviamo insieme in questo limbo forzato, spesso sdraiati a terra sulla moquette beige, dello stesso colore della sabbia, il lungomare che vediamo dalla nostra finestra.
Aspettiamo di partire e tornare a casa, mentre cerchiamo di accudirti e assecondarti nei tuoi movimenti e nelle tue abitudini. Hai lo sguardo a volte curioso, a volte stanco, forse ti chiedi perché ti abbiamo portato via dalle tue sicurezze appena nate.
Penso a noi e al tuo futuro, a quando crescerai e questo tempo lentissimo sarà un battito di ciglia nella nostra vita. Un giorno, quando sarai grande, forse torneremo qui, a cercare ciò che sappiamo non avrà risposta, ma sarà come accarezzare quella parte di noi, quel luogo che ti ha fatto nascere e ci ha fatto trovare.
Abbiamo solo il luogo, nel vuoto del tempo che ci manca di te non sappiamo altro. Non sappiamo niente di chi ti ha partorito, di chi ti ha lasciata, di chi ti ha salvata. Questo luogo nasconde tutto, noi vediamo solo il lungomare calpestato dalla sua umanità che si trascina lenta, come la fatica quotidiana di sopravvivere che è la realtà più presente fra le anime di cui vediamo solo le ombre.

Nel nostro silenzio ovattato e raffreddato dall'aria condizionata, i miei pensieri tornano al presente, a domani, quando tutto sarà finito. A domani, quando tutto, finalmente, comincerà.


 20 aprile 2013
Ore 23.00 (ora locale) Mumbai- India

Siamo finalmente sull'aereo che ci farà tornare dal nostro viaggio. Tu non ne vuoi sapere di staccarti dalla mamma e le rimani abbracciata. Sono stati giorni faticosi, le prime prove del nostro contatto come famiglia, i primi giorni in cui abbiamo preso il ritmo della nostra nuova vita.
L'aereo si sta muovendo, abbiamo iniziato il decollo, tutta l'energia che sento dietro la schiena mi fa stare bene, lasciamo questo paese a cui dobbiamo la realizzazione del nostro desiderio. Un giorno, sicuramente, torneremo.
Adesso alzati cicogna, torniamo a casa.
Ci stiamo staccando da terra, voliamo, siamo in volo e il cuore è leggero. Tu dormi un sonno tranquillo e sfinito sulla mamma, quella madre a cui ti sei dovuta affidare, in questi giorni che ci hanno fatto conoscere. Ti sei dovuta abituare in fretta al suo odore, noi ruotavamo intorno a te, siamo diventati un mondo unico, e i nostri bisogni si sono fusi.    
Adesso voliamo, finalmente, voliamo mentre penso che adesso posso cedere, la razionalità diventa rarefatta, mentre ormai siamo in quota, e la mia anima, il mio cuore e miei sentimenti galleggiano leggeri in aria, seguono la rotta del destino che ci stiamo costruendo e che ci ha voluti insieme. Sento che adesso posso lasciarmi andare, mi addormento sfinito, nonostante gli scossoni che fanno tremare l'aereo.

Ore 01.00 (fuso orario Mumbai su rotta aerea Mumbai-Monaco)

Mi svegliano le turbolenze, e continuano per almeno due ore, chiudo gli occhi e penso agli ultimi anni, mentre vengo sballottato sul sedile, ricordo le lunghe attese per la fecondazione assistita, quando io e mia moglie volevamo un figlio e volevamo farlo.

Ore 09.00 (ora italiana)

Siamo atterrati all’alba a Monaco e dopo poco ci siamo imbarcati sull’ultimo aereo. Sotto di noi compaiono i tetti di Bologna, belli, meravigliosi, siamo a casa. Riconosco le strade e i palazzi della nostra ultima meta. Mia moglie mi sorride stanca, mentre tu hai un occhio aperto e uno ancora chiuso mentre sei abbracciata alla mamma. Stiamo lentamente planando, stiamo toccando terra con il nostro sogno.
Adesso atterra cicogna, ma fai piano, la nostra famiglia è appena nata.

Ore 12.00

Arriviamo a casa mentre il cielo piange di gioia a bagna tutto, le piante, l'erba, i palloncini messi dai nonni a colorare il nostro arrivo. Fra le due piante ai lati dell’aiuola, la scritta   "Benvenuta a casa". Il nostro cuore esplode, le nostre gambe non reggono più, io e mia moglie ci abbracciamo e piangiamo, le nostre lacrime si mischiano alla pioggia, guardo in cielo, penso a chi non può vivere questo momento e adesso ci sta bagnando.
La pioggia cade e disseta la terra, lava tutta la fatica e la polvere delle attese.
C'è aria di fresco, di pulito, apriamo le finestre e il vento scuote le tende, la luce entra nella nostra casa. Nostra figlia, come risvegliata da un sonno lunghissimo, comincia a camminare per tutte le stanze, in preda ad un’ euforia improvvisa, curiosando dappertutto e parlando una lingua tutta sua. Mia moglie le corre dietro, stupita di questa eccitazione.
Io mi guardo intorno, respiro forte come se avessi fame d'aria. Vedo mia moglie giocare a terra con lei, hanno in mano bambole e macchinine. A terra palloncini ovunque che ci hanno lasciato i nonni.
Sento che la stanchezza mi fa cedere le gambe, mi sdraio sul letto mentre l'adrenalina dà gli ultimi colpi ai nervi prima del riposo. Siamo a casa.






12 marzo 2015
ore 23.00

Ho terminato di scrivere questo racconto. Ieri sera, mentre si preparava per dormire, mia figlia stava guardando l'album con le nostre foto che era stato inviato all'istituto mentre aspettavamo l’abbinamento. Erano le foto di presentazione di noi come futuri genitori: i nostri primi piani, noi insieme ai nostri genitori, nelle stanze della nostra casa.
"Qui mi stavate aspettando" dice con sicurezza Mansi, guardando fissa una foto che ritrae me e mia moglie, soli e abbracciati.
"Io ero nel vostro cuore”, sussurra piano guardandoci.
Buonanotte piccola mia, nel nostro cuore ci sarai per sempre.