martedì 12 luglio 2016

La strada della rinascita

Sento che ci siamo, sento che è arrivato il momento. I dolori sono sempre più forti, e il tempo ormai  è quello giusto: ho deciso, non posso fare altro che prendere il telefono e chiamare. Compongo il numero mentre cammino nervosamente per la stanza, ma il telefono suona a vuoto. Cerco di calmare la respirazione, mentre vado in bagno per controllare. Le contrazioni continuano da troppo tempo, mio marito è in volo e mio padre non risponde al telefono. Sono nervosa, mentre per un istante i dolori si attutiscono, sono madida di sudore e chiudo gli occhi per calmarmi. Penso spontaneamente alla mia vita, alla mia infanzia e a quello che mi è successo, adesso che sto diventando madre. Il dolore fisico che sto provando è per me il riscatto della mia storia. Sto dando alla luce una bambina e il mio pensiero fisso è a quel momento che mi appartiene e che oggi non ha testimoni, che rimane solo teorizzato.
Il mio inizio. Il mio buco nero.
Richiamo mio padre che finalmente risponde, cerco di tranquillizzarlo e gli dico che voglio andare in ospedale, che i dolori sono aumentati e che voglio lui vicino, “arrivo subito” , mi dice.
Michele è partito appena ha potuto per raggiungermi, e sarà l'ultima volta che accetterà quegli impegni di lavoro, ora che saremo una famiglia. Mi tengo la pancia fra le mani. Sento dentro non solo la creatura che è cresciuta dentro me, ma anche me stessa, sento un bisogno indescrivibile di stringere ciò che porto in grembo, ho fretta di vedere. Mi vergogno di considerare ciò che ho accudito per nove mesi  come una mia proiezione del passato, un conto aperto con la mia vita, quasi fosse più importante una dimostrazione a me stessa di procreare che la responsabilità di mettere al mondo un figlio. Non solo il frutto dell'amore con mio marito, ma principalmente una cosa tutta mia, un'equazione mai risolta prima, l'incubo inspiegabile e vissuto solo da me, l'ombra che mi ha accompagnato tutta la vita, quella favola bella, ignota a tutti e dimenticata solo perché finita bene.
Adesso mi manca il respiro, sento le fitte all'addome e un dolore forte ai reni. Mio padre sta arrivando. Cerco di stare calma e penso alla mia infanzia, prendo aria e riempio i polmoni, mentre la mia mente vola a quando ero bambina, a quei pochi ricordi del "prima", di quella vita che non ho mai vissuto, di quel passaggio obbligatorio nell'istituto. Ero troppo piccola e ricordo solo immagini luminose, colori violenti e bambini che correvano intorno a me. Ma nei ricordi lo stacco con quella vita in cui sono cresciuta non è nitido, ma fluttuante, si sovrappone. Eppure ci sarà stato il momento del taglio, del distacco da quel mio primo nido. Ho visto le foto e me lo hanno raccontato per anni quel giorno : quando mamma e papà sono venuti a prendermi, ma le immagini sono confuse. Forse anche ciò che penso di ricordare, in realtà è frutto della mia fantasia, pensieri elaborati dalle fotografie che sfogliavo avidamente da quando ero piccola. Ricostruire la mia storia, la mia ossessione di sempre. La tessera mancante, il momento dell'abbandono, l'inizio della mia vita. Adesso sta per nascere mia figlia. Ho paura di non riuscire più a lasciarla, una volta che l’ abbraccerò: vorrò tenerla sempre stretta a me, non mollarla mai.
Sento il campanello, mi alzo e vado ad aprire. Mio padre sale le scale in fretta, ha gli occhi lucidi, "sto bene", gli dico, "ma preferisco andare subito, è inutile aspettare".
"La mamma ci raggiunge dopo", mi risponde, "così facciamo prima". Ci abbracciamo forte, anche lui non vede l'ora che tutto finisca, sono giorni che ha i nervi a fior di pelle. Per lui è la prima volta che attende in una sala parto, la prima volta che vedrà un bambino appena nato, la prima volta che diventa nonno della sua prima figlia. Ha il sigaro spento fra le labbra e si muove a scatti, entra in bagno poi torna indietro, mi chiede se ho chiuso il gas e se ho preparato tutto. Io non gli rispondo, prendo il borsone con le mie cose e glielo metto in mano, poi gli indico la porta.
Devo controllare anche lui. Devo controllare il respiro, devo controllare tutto. Prima di uscire guardo la fotografia che ho nella cornice sopra il mobile nell' ingresso: è la prima foto che ci ritrae insieme, in India, avevo quattro anni e i miei genitori erano appena venuti a prendermi. Mia madre aveva gli occhi stanchi di chi ha fatto uno sforzo immane e può finalmente rilassarsi, come quei maratoneti che alzano le mani a pochi metri dal traguardo perché ormai hanno vinto, e corrono per inerzia con la bocca aperta e gli occhi al cielo. Mio padre aveva nello sguardo quella luce di chi è esausto ma non riesce a prendere sonno e cerca la forza di stare sveglio, di essere vigile e controllare ogni cosa intono a se. Nella foto mi tengono in braccio, io guardo il fotografo, con un'espressione fiera e il sopracciglio destro leggermente inarcato, avevo i capelli raccolti in due trecce e un vestitino viola. Forse già allora mi sentivo felice ma spaventata per quello che mi stava accadendo. Proprio come adesso.
Saliamo in macchina e ci dirigiamo verso l'ospedale, meno male che mio padre guida bene e prende le curve dolcemente, quasi mi lascio cullare sulla  strada che da casa scende in città, la strada che ho fatto per tanti anni, in autobus, in scooter e poi in macchina.
Mi arriva il messaggio di mio marito: è atterrato, mi chiama appena esce dal terminal. Gli rispondo rassicurandolo della situazione. Poi metto in tasca il telefono e chiudo gli occhi. Le fitte ricominciano. Mio padre mi accarezza una guancia senza togliere gli occhi dalla strada. Io gli prendo la mano e stringo forte, torna in me il bisogno del contatto rassicurante con la persona che ti dà amore, quel bisogno ancestrale che devo aver provato anche da piccola, per compensare quella perdita, quel distacco traumatico che ora sarà un’ eco chissà dove nel mio inconscio. Quel bisogno che hanno esaudito i miei genitori sin  da quando siamo nati come famiglia, in quella lontana primavera indiana, di cui non ho ricordi ma solo foto sbiadite, dove la donna che mi ha partorito è rimasta un sogno, e tutta la storia un mistero. Credo che mio padre non sappia altro, anzi, ne sono certa. In questi anni abbiamo sempre fantasticato di andare in quel posto dove sono nata ma non è mai successo. Forse torneremo un giorno in quel luogo dove ho aperto gli occhi, e finalmente troverò dentro di me le risposte, o forse, troverò la pace e chiuderò i conti con la questione delle mie origini.
Faccio questi pensieri forti mentre respiro e più respiro forte più questi pensieri si colorano, diventano vivi, ed io stringo ancora la mano di mio padre, per un attimo, mentre guida. Siamo quasi arrivati, rallentiamo e cerchiamo l'ingresso dell’ospedale più vicino alla strada.  Adesso dobbiamo entrare, il dolore è forte e le fitte sono ricominciate, ho fretta, devo vedere mia figlia, penso piangendo, ed ho quella smania di realizzarmi come madre e di creare una parte di me che mi sopravviva.
E’ la smania di futuro che mi ha sempre descritto mio padre quando mi raccontava cosa ha spinto lui e la mamma ad adottare : completare la propria vita, essere protagonista dei ricordi di chi hai cresciuto. Mio padre mi guarda, ha ancora quella smania negli occhi.


2a parte

Adesso sono tranquillo, siamo arrivati in ospedale senza contrattempi, e ora che guardo negli occhi mia figlia, leggo quella luce di ostinato desiderio che ho sempre visto illuminarle il viso ogni volta che parlava del suo stato.
Siamo arrivati alla fine di questo periodo di attesa e il sogno si sta realizzando. L'attesa amplifica i desideri e fa crescere chi li custodisce. Ricordo quando io e mia moglie eravamo in attesa, era un tempo diverso, dilatato e rigido come le nostra vite che avevamo indirizzato sugli stessi binari quando volevamo solo diventare genitori.
Oggi me lo sentivo che era la giornata buona, mi aspettavo la telefonata di Maya, appena ho saputo che mio genero stava tornando dell'Inghilterra. Allora ho subito cercato l' infermiera che sostituisse mia moglie che in questo periodo si sta dividendo fra i nostri vecchi. Siamo la generazione di mezzo, sessantenni che accudiscono i genitori e disinfettano le ferite dei figli, che questo mondo sta prendendo a sberle. Assecondiamo i loro sogni, come abbiamo sempre fatto, anche rischiando di renderli dipendenti da noi, di soffocarli con le nostre convinzioni e con le nostre sicurezze. I nostri ragazzi devono  essere di indole ribelle per credere in loro, per prolungare la tempesta dell'adolescenza  e mantenere ciò che di buono succede a quell'età : la continua necessità di crescere e di cambiare, di staccarsi dal bambino che non c'è  più.
Ricordo quando mia figlia era piccola, di quando voleva fare tutto da sola e della sua fretta di diventare grande. Maya fu per noi una virata dolce nella nostra vita, che ci ha portato sulla strada che volevamo, quando io e mia moglie ci sentivamo incompleti. Una strada a volte in salita ma con curve morbide, che non ci ha  mai fatto perdere di vista l'orizzonte davanti a noi.
Ora siamo arrivati qui, stiamo salendo al quinto piano, reparto ostetricia, accompagno mia figlia per l'ennesimo monitoraggio, forse è la volta buona. Aspetto seduto in corridoio mentre la ginecologa l'accompagna nella saletta. Chiamo mia moglie, le dico di sbrigarsi.
Dalle grandi finestre il sole sbiadito del tramonto getta ombre tristi sui palazzi di cemento che soffocano il piccolo parco dietro l’ospedale, vedo bambini che corrono e mamme dietro loro con il passo stanco.
Pochi rumori arrivano dalle stanze, interrotti solo dal calpestio sommesso di qualche medico che percorre il corridoio.
Sono sospeso nel tempo, solo, mentre mia figlia sta per partorire. Apro il portafoglio e estraggo la fotografia che conservo dal tempo in cui siamo andati a prenderla in India più di vent’anni fa. Avevamo negli occhi l’incoscienza, ma anche una luce che rifletteva la nostra gioia, che ci ha fatto attraversare tutti questi anni.
Se chiudo gli occhi, rivedo il sogno che mi ha accompagnato tutta la vita, un sogno alimentato dalla fantasia, dalla paura, il primo tempo sconosciuto della nascita della mia bambina.
Vedo una donna- la immagino ma non vedo il volto-, vestita di stoffe di tutti i colori, mentre corre con un fagotto in mano. Corre sotto la pioggia  e tiene stretta a sé ciò che vuole proteggere, corre per consegnarlo a qualcuno, perché venga salvato, perché venga trovato. Corre mentre succede di tutto, tutto il mondo è contro di lei. Quella donna corre mentre un acquazzone scarica tutta la sua potenza a terra, mentre il vento forte scuote gli alberi e fa volare via detriti accatastati ai bordi delle baracche, e lei a fatica percorre quella strada di fango mentre stringe a se un dono che sarà la costruzione di una nuova famiglia, sarà una donna che crescerà lontano da lei . Sarà una donna che avrà dei figli.
Sarà mia figlia che oggi sta per partorire.
Ma quella donna dei miei sogni non lo sa. Lei stringe a se ciò che ha appena dato alla luce e si preoccupa unicamente, sola e con tutte le forze della natura contro di lei, di tenere in vita quella creatura e di portarla al sicuro. La terra diventava fango, sotto fiumi di acqua che scorrevano per le strade, mentre il vento urlava e i fulmini schioccavano nel cielo nero. Aria, terra, acqua e fuoco, tutto questo c'era nel mio sogno, ad immaginare come è stato l'inizio della storia di questa bambina.
Chissà se è andata veramente così.
Adesso la guardo, al di là del vetro, mentre aspetta di dare alla luce suo figlio. È sdraiata sul lettino per il monitoraggio ed ha accanto a lei l'ostetrica e un' infermiera. Alcuni medici entrano ed escono in silenzio dalle camere. Sento freddo e mi accorgo che sto tremando, ma sono consapevole che è l'emozione. Sento il campanello dell' ascensore, vedo mia moglie che mi viene incontro e mio genero che vorrebbe correre ma non sa da che parte.
Mi alzo e li abbraccio, gli faccio segno oltre la porta a vetri, poi mi siedo e non so perché ma le lacrime mi scendono mentre mi sento al settimo cielo.
Adesso siamo seduti io e mia moglie in corridoio, mentre Michele è entrato nella saletta, ad attendere di entrare in sala parto. Siamo io e lei, in questo anonimo corridoio, mentre le luci al neon riflettono chiazze di luce riflesse sul pavimento scuro. Adesso ci teniamo la mano e le stringiamo forti, consapevoli come questo momento sia un passaggio importante nella nostra vita.  Mentre ci guardiamo negli occhi, penso ai momenti in cui io e lei, in silenzio ci siamo presi la mano. Chi ci guarda penserà che siamo due vecchi patetici sentimentali. Ma a me non importa. Eravamo seduti mano nella mano quando abbiamo acquistato casa, poi tutte le volte che eravamo in ospedale per cercare di avere un bambino, poi quando volevamo adottare un bambino, e quando ci hanno detto che potevamo adottare un bambino. Poi anche quando ci hanno detto che c’era una bambina che era nostra figlia, quando abbiamo visto le prime foto di nostra figlia, quando siamo partiti per andare a prenderla, e anche sull’aereo, quando siamo atterrati, per sempre. E anche adesso ci teniamo per mano.
Sento la porta che si apre, Michele esce con un camice in mano e mentre un infermiere apre la porta, un altro spinge il lettino con Maya.
Ci alziamo in piedi di scatto, siamo pronti: è ora, li seguiamo fino alla sala parto.